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di Maurizio Zaffarano
Non mi addentro in questo post nella discussione sull'uscita dall'euro consapevole delle implicazioni, non liquidabili in poche righe, economiche, politiche, sociali, storiche, culturali, delle relazioni internazionali che essa si porta dietro e nella convinzione che, se questa Europa dell'austerità e del liberismo è l'Inferno, l'uscita dall'euro di per sé non è il Paradiso (“le ingenue apologie del cambio flessibile quale panacea di ogni male” per citare il monito degli economisti di Emiliano Brancaccio e altri).
L'euro,
se non cambieranno le regole e gli strumenti che lo governano, è
destinato probabilmente ad implodere: dunque il problema per la
Sinistra non è di accodarsi alle destre nello sventolare la bandiera
dell'uscita dall'euro (cioè focalizzarsi sull'arma che uccide e non
su chi la impugna) ma di lottare per cambiare i rapporti di potere e
gli assetti proprietari su cui è fondato il capitalismo dei nostri
tempi e di contrapporgli un'alternativa (ed in questo senso è
interessante leggere cosa scrive Bruno
Amoroso).
In
caso contrario, se e quando si arriverà all'uscita dall'euro questa
verrà gestita dalle stesse oligarchie (quelle che fondano il proprio
potere sulle mafie, sulla corruzione, sull'evasione fiscale, sulla
devastazione dell'ambiente, sulla subalternità ai 'mercati', al
Vaticano, al capitalismo di rapina e agli interessi delle grandi
multinazionali) che ci hanno condotto al baratro a cui siamo giunti:
serve allora dunque costruire da subito una reale alternativa
politica e culturale ed una concreta rete di protezione a favore dei
ceti popolari, per contrastare povertà ed esclusione sociale.
Di
fatto le condizioni politiche (leggi disponibilità della Germania)
per rinegoziare gli attuali (perversi) vincoli finanziari e monetari
europei non si vedono all'orizzonte. Nel contempo l'uscita dall'euro,
soprattutto se non negoziata e sospinta da moti di piazza in stile
'forconi' o se innescata da referendum consultivi che scatenerebbero
mercati finanziari e fuga dei capitali, rappresenterebbe poi
indubbiamente un pericoloso salto nel buio, da un punto di vista non
solo economico ma soprattutto politico e sociale. Nel caos
conseguente è più facile pensare alla presa del potere da parte di
forze militari piuttosto che all'avvento del socialismo
rivoluzionario.
Credo
che non dovremmo mai dimenticare che la situazione che stiamo vivendo
nel nostro Paese è certo la conseguenza dell'austerità imposta
dall'Europa (dopo la crisi delle banche americane del 2008) e dalla
perdita di competitività delle merci italiane a seguito
dell'adozione dell'euro ma è anche il punto culminante di un
trentennio di finanzcapitalismo, di liberalizzazione della
circolazione dei capitali, di colpevole rinuncia a governare
l'economia per mezzo delle imprese e delle Banche pubbliche, di
impetuose trasformazioni tecnologiche, di globalizzazione dei mercati
che ha portato al primato nelle capacità produttive le potenze
emergenti del sud-est asiatico a cui ha fatto riscontro una classe
dirigente nazionale (politica, sindacale ed imprenditoriale) imbelle
e corrotta.
Il
risultato a cui siamo arrivati è quello di milioni di persone senza
lavoro e senza reddito o con un lavoro inadeguato, insufficiente,
inutile o che hanno a disposizione solo temporanei ammortizzatori
sociali come la cassa integrazione – energie, capacità, talento
gettati al vento – a cui si contrappongono enormi bisogni sociali
che restano insoddisfatti: nella sanità, nell'istruzione,
nell'assistenza sociale ed ai non autosufficienti, nella manutenzione
del territorio, nella necessità di adeguare gli edifici a criteri di
sicurezza e di efficienza energetica, nella cura delle città, nella
difesa o nel risanamento dell'ambiente, nella tutela e nella
valorizzazione dell'immenso patrimonio artistico, archeologico,
paesaggistico italiano.
Un
Paese allo sbando, da un lato flagellato dalle continue emergenze e
dai disastri causati da fenomeni naturali, con i servizi pubblici
progressivamente smantellati e milioni di persone lasciate senza
speranza e senza un reddito sufficiente per vivere.
La
mia domanda allora è: perché non riflettere su soluzioni
intermedie, di compromesso, immediatamente attivabili e non
azzardate, incuneandosi nei margini di interpretazione dei trattati
europei in vigore per contrastarne davvero gli effetti ed imporne,
modificando i rapporti di forza sociali e politici e con i 'padroni'
tedeschi, una revisione?
Potrebbero
quei milioni di cittadini in povertà e senza lavoro essere impiegati
nella produzione di beni e servizi (sanità, scuola, trasporti,
energia, prodotti alimentari, assistenza, asili nido, case da
ricavare da edifici pubblici dismessi) in imprese a gestione pubblica
(in tutte le sue possibili accezioni: Stato, enti pubblici, enti
locali, comunità locali di cittadini organizzati secondo criteri
democratici e partecipati)? E se a fronte di quella ricchezza reale
prodotta (beni e servizi) fosse emessa una moneta complementare
(buoni welfare) valida per acquistare quegli stessi beni e servizi
non si renderebbero disponibili le risorse per retribuire (in larga
parte) i lavoratori impiegati per produrla e nello stesso tempo per
estendere le protezioni dello Stato sociale (reddito minimo
garantito, qualità ed offerta di servizi pubblici)?
Rendendo
liberamente negoziabili i buoni welfare (il cui valore starebbe
appunto nella possibilità di acquistare beni e servizi primari come
ad esempio la frequenza di un asilo nido o l'abbonamento ad una linea
di trasporto) nuove risorse verrebbero poi immesse nel circuito dei
consumi privati.
E
ciò ridarrebbe fiato, attraverso l'incremento del potere d'acquisto
dei ceti popolari, all'impresa privata (e questa potrebbe a sua volta
utilizzare i buoni welfare incassati per incrementi salariali ai
propri dipendenti, attraverso specifici accordi sindacali).
Dunque
produzione (innescata da una forma di sovranità monetaria e
dall'intervento pubblico nell'economia) di ricchezza e qualità della
vita (sociale e ambientale) vera, inclusione sociale e lotta alla
povertà, incremento del reddito disponibile per i ceti popolari a
cui corrisponderebbe nuova linfa per le attività economiche e per i
consumi.
Realizzando
con questo un'autentica rivoluzione culturale e dando concreto
significato a concetti quali sovranità monetaria, pianificazione ed
intervento pubblico nell'economia, piena occupazione, redistribuzione
della ricchezza ed uguaglianza sociale, socialismo.
Si
riporterebbe cioè nella vita economica e sociale, si perdoni la
citazione plebea della dichiarazione dell'allenatore della Roma Rudi
Garcia dopo la vittoria nel derby, 'la chiesa al centro del
villaggio'.
Provo
ad immaginare le possibili obiezioni a queste riflessioni (non prendo
in considerazione la scontata accusa di dirigismo e di statalismo
considerato che considero questi non il problema ma la soluzione dei
nostri problemi).
Tra
queste obiezioni anzitutto il fatto che lo Stato avrebbe meno incassi
monetari in euro a fronte dell'erogazione dei propri servizi. Ma in
realtà aumentando la propria offerta soprattutto consentirebbe di
usufruirne a chi oggi non vi accede per carenze di reddito o perché
non considera adeguata l'offerta (per la qualità e la tempestività
nell'erogazione). Ciò che si realizzerebbe piuttosto è un
trasferimento degli incassi dal settore sociale privato e
confessionale a quello pubblico ma si può presumere che le risorse
risparmiate dai cittadini andrebbero ad affluire in altri tipi di
consumi (senza influire negativamente sulle entrate fiscali dello
Stato e sull'occupazione privata complessiva).
In
ogni caso computando nel PIL la ricchezza prodotta, grazie
all'istituzione di questo esercito di lavoro, non verrebbero di certo
alterati i famigerati parametri europei.
Si
pensi ancora a quali benefici potrebbero avere sul turismo e
sull'economia 'culturale' le piccole opere pubbliche di manutenzione
e bonifica del territorio e di tutela e valorizzazione del patrimonio
artistico e di quanto il nostro Paese abbia bisogno di investimenti
nei settori strategici della Scuola, dell'Università, della Ricerca.
L'accusa
che invece presumo possa venire da 'sinistra' riguarda
l'istituzionalizzazione di una doppia categoria di lavoratori: quelli
di 'serie B' retribuiti in 'natura' e quelli di 'serie A' retribuiti
in denaro. A parte il fatto che si ragiona in termini di retribuzione
prevalentemente in natura e che i due 'mondi', fermo restando la
libertà di passaggio da una condizione lavorativa all'altra,
dovrebbero alla lunga potersi omogeneizzare come parità di
trattamento e di reddito, l'alternativa che io vedo è tra la
richiesta di reddito di cittadinanza non condizionato e di reddito
minimo garantito e la produzione di ricchezza per mezzo di lavori
socialmente utili.
Per
la prima opzione non vi sono, ahimè, le condizioni politiche,
economiche e monetarie. Al più, come sembra evincersi da alcune
proposte di 'opinionisti' del mondo del precariato, sorprendemente in
linea con la visione della ditta Ichino-Fornero-Renzi, ciò che si
prospetta è di utilizzare le risorse attualmente dedicate alla cassa
integrazione, peraltro frutto di specifici contributi versati da
lavoratori ed imprese sulla base di norme e di accordi sindacali,
senza aggiungerne di altre realmente consistenti, per allargare a
dismisura la platea dei beneficiari a tutti i disoccupati e agli
indigenti. Un po' di briciole per tutti (ed insufficienti per tutti)
che non cambiano la visione fondante del capitalismo: la ricchezza ed
il lavoro vengono creati solo dall'iniziativa privata e dal mercato e
lo Stato può avere solo la funzione di redistribuire ciò che può
prelevare dalla ricchezza privata con le tasse.
La
seconda opzione, quella che qui propongo dei lavori socialmente
utili, risponde invece sia alla situazione attuale di emergenza (e
non trovo affatto indecoroso che chi ha bisogno di reddito possa
ottenerlo prevalentemente in forma di beni e servizi essenziali e
dando in cambio un contributo alla collettività) sia all'assoluto
bisogno che abbiamo di affermare una visione alternativa a quella
capitalista, liberista e della onnipotenza dei mercati.
Un
punto essenziale è che il percorso che ho qui rudimentalmente
accennato è realizzabile grazie all'adozione di una legislazione
nazionale autonoma, 'forzando' i trattati europei, e, se ne mancasse
la volontà politica, da parte di enti locali – regionali,
provinciali, comunali – o in ultima ipotesi autonomamente dagli
stessi cittadini che riuscissero ad auto-organizzarsi in tal senso.
Un'Italia
resa più forte e più coesa sul piano sociale avrebbe finalmente la
possibilità di negoziare con ben altra forza e ben altre possibilità
di successo la revisione dei trattati europei rendendo non più
semplici chimere tutte quelle opzioni che sono state indicate (la
trasformazione della BCE in prestatore di ultima istanza degli Stati
membri dell'euro, gli eurobond, l'adozione di meccanismi per
compensare le differenze di produttività e gli sbilanci commerciali
tra i Paesi della zona euro) per non buttare via dell'Europa il
bambino insieme con l'acqua sporca.
Non sono daccordo sulla Vostra posizione in tema europeo. Auspico invece la soppressione di questi apparati burocratici e polici e il ritorno alla sovranità monetaria. Non vi è alcun bisogno di avere un organismo Fantoccio vuoi politico che Economico-finanziaro in Europa. Bisogna agire!
RispondiEliminaSe non sbaglio Maurizio, avevamo accennato a questo argomento, in chat su facebook ed anche per telefono :)
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