di Maurizio Zaffarano
Ogni qualvolta si sentono contrapporre, nel pensiero unico diffuso dal mainstream informativo, il privato efficiente, efficace, unica fonte di creazione del lavoro e della ricchezza collettiva con il pubblico inefficiente, parassitario, sperperatore delle risorse dei cittadini vengono in mente innumerevoli casi reali che contraddicono questa visione.
Ne cito due, non recentissimi, ma significativi:
la vicenda della clinica degli orrori,
la Santa Rita di Milano, che ha visto la condanna nel processo d'appello-bis del primario di
chirurgia toracica, Pier Paolo Brega Massone, e dei suoi due vice per
avere eseguito secondo la Procura milanese, dal 2005 al 2007, 83
interventi nella migliore delle ipotesi completamente inutili ma causa
di indicibili sofferenze ai pazienti, effettuando decorticazioni e
sezioni, soprattutto di polmoni e mammelle, unicamente per chiedere il
massimo dei rimborsi;
i metodi e i trucchi con cui
l'industria farmaceutica ottiene dolosamente l'incremento del consumo
di farmaci anche da parte di chi non ne avrebbe bisogno (argomento oggetto di numerose inchieste, tra le altre di Rainews24 e di Repubblica).
Dopo decenni in cui ci hanno spiegato che la gestione pubblica dei
servizi e delle attività economiche comportava inevitabilmente sprechi e
inefficienze mentre l'iniziativa privata, grazie ai meccanismi della
libera concorrenza, avrebbe assicurato per l'utente/consumatore una più
ampia possibilità di scelta, riduzione dei costi e migliore qualità dei
beni e servizi prodotti la realtà ci mostra esattamente il contrario.
I casi citati colpiscono ancor di più in quanto dimostrano che anche il
bene della salute può diventare l'oggetto di delittuose speculazioni a
fini di lucro.
Ciò che è successo nella clinica Santa Rita non può peraltro essere
ridotto ad un episodio di devianza criminale alla stregua di una rapina
in banca o di una estorsione. Esso nasce e si alimenta nel contesto
corrotto o comunque distorto di un sistema che smantella la sanità
pubblica a vantaggio delle convenzioni con gli istituti privati di cura,
si scontra con l'anacronismo di una visione della professione medica, a
cui pure credo siamo ancora in molti ingenuamente e romanticamente
attaccati, al servizio della persona e non quale mera occasione di
arricchimento (si vedano al riguardo le statistiche sullo 'strano'
record italiano dei parti cesarei, oggetto di più ricchi rimborsi
rispetto ai parti normali).
In una società dove l'unico valore è quello del denaro, anche le persone
'perbene' e con un elevato status sociale quali appunto i medici, anche
i 'colletti bianchi' possono considerare accettabile violare la legge,
delinquere o addirittura diventare complici, per potersi consentire di
vivere nel lusso, dei mercanti di morte.
Con dimensioni quantitativamente assai più rilevanti, la produzione
dell'industria farmaceutica è emblematica del conflitto insanabile tra
logica del profitto e interesse generale.
L'industria privata deve massimizzare vendite e fatturato e a tal fine
indirizza ricerca e produzione dei farmaci laddove maggiore è il margine
di guadagno, 'induce' i medici a prescrizioni inutili o eccessive
attraverso pratiche corruttive, opera perché cambino i valori di
riferimento delle patologie per allargare il numero dei destinatari
delle cure, promuove allarmi per incombenti pandemie (si pensi alla
bufala del virus dell'H1N1 dell'influenza suina), impone prezzi non
accessibili agli abitanti del terzo mondo per farmaci vitali.
L'interesse generale è invece quello della salute di tutti i cittadini,
in base ad esso ci si pone, per quanto possibile, l’obiettivo della
riduzione della spesa a carico della collettività attraverso la
prevenzione, una corretta prescrizione dei farmaci e assegnando ad essi
un prezzo accessibile ed equo. L'interesse generale richiede altresì di
orientare la ricerca dove massimo può essere il beneficio collettivo
senza peraltro omettere di farsi carico, per ragioni di giustizia e di
solidarietà, anche di quelle malattie che per la loro rarità non
consentirebbero all'industria privata di raggiungere economie di scala.
La constatazione di questa irriducibile contraddizione - pubblico e
privato, bene comune e profitto - si estende in realtà all'intera
struttura produttiva di un Paese.
Certo va riconosciuto che il profitto, l'egoismo ed il vantaggio
personale sono motivazioni che rappresentano anche uno straordinario
stimolo ad un progresso che può estendersi alla società nel suo
complesso ma inesorabilmente entrano in conflitto con il bene generale
della collettività.
Se la legge del capitalismo, se l'imperativo categorico che ci impone
questa società, è di guadagnare e consumare quanto più possibile, se il
valore delle persone è funzione del loro reddito e delle ricchezze
materiali di cui si può godere e che si possono ostentare, è una
conseguenza 'naturale' non porre dei limiti etici e non riconoscere delle
finalità sociali alla propria iniziativa economica.
Authorities, controlli, pretesi meccanismi di concorrenza perfetta, la
favola della dittatura del consumatore possono ben poco di fronte
all'interiorizzazione dell'idea che il rispetto delle regole è un lusso,
un optional, consiste in lacci e lacciuoli di cui si può e si deve fare
a meno oppure quando aziende ed imprese private assumono dimensioni più
grandi di interi stati e possono dar vita per di più ad accordi di
cartello per sottrarre interi settori dell'economia all'impaccio ed ai
costi di una dispendiosa competizione.
Mentre la globalizzazione azzera la capacità di contrattare diritti e
retribuzioni da parte dei rappresentanti dei lavoratori, la stessa idea
di democrazia entra in crisi di fronte al potere preponderante di alcune
entità economiche multinazionali.
Ciò nei paesi ad economia capitalista più evoluta come Stati Uniti e
Regno Unito e tanto più in Italia dove la capacità di sanzione morale
della collettività dei comportamenti illegali, la cultura dei controlli e
le strutture della pubblica amministrazione sono inesistenti o
caratterizzate da debolezza e disorganizzazione.
Dovunque volgiamo il nostro sguardo, contiamo le vittime dell'eternit,
dei petrolchimici, delle frodi alimentari, dello smaltimento illegale
dei rifiuti, degli incidenti sul lavoro (il più delle volte causati
dalla volontà di risparmiare, nella fondata certezza dell'impunità,
sulla sicurezza).
La logica del profitto è dietro le guerre che sono fatte anche e forse
soprattutto a vantaggio dei fabbricanti di armi e delle industrie che
vogliono assicurarsi il dominio sulle risorse naturali, il petrolio in
primis.
E' all'origine della devastante crisi economica in corso, conseguenza di
una aberrante gestione speculativa del sistema finanziario da parte di
alcune banche private.
La Fiat ha imposto per un cinquantennio al nostro Paese una politica
della mobilità incentrata sul trasporto privato su gomma di merci e
passeggeri a detrimento di quello pubblico su rotaia o nave, politica di
cui sono state espressione ben determinate scelte infrastrutturali, a
spese della fiscalità generale, che hanno privilegiato lo sviluppo delle
autostrade rispetto a quello delle ferrovie e delle metropolitane. Un
trasporto automobilistico privato che ha determinato inquinamento e
migliaia di morti ogni anno in incidenti stradali. Ma una volta che si
creano le condizioni per più vantaggiosi impieghi e localizzazioni del
proprio capitale, la Fiat pianifica e realizza lo smantellamento delle
attività produttive in Italia per trasferirle altrove, senza che i suoi
proprietari e manager avvertano un debito morale verso i lavoratori e le loro
famiglie, verso i territori la cui economia è legata ai suoi
stabilimenti, respingendo qualunque cedimento all'idea di essere
patrimonio ed espressione dell'interesse nazionale.
Se a tutto questo paragoniamo la gestione da parte dello Stato o di
altri enti pubblici di attività economiche e servizi, va riconosciuto
che quest'ultima non si concretizza di per sé nel Paradiso in terra. E'
stata in passato (basta pensare al sistema democristiano delle
Partecipazioni Statali) ed è spesso tuttora il regno della corruzione e
dell'inefficienza, il poltronificio dove piazzare parenti, amici,
colleghi di partito trombati alle elezioni, lo strumento clientelare di
acquisizione del consenso elettorale. Anche il pubblico può operare ed
ha operato in spregio dei diritti e della salute dei cittadini, magari
per rispondere ad una malintesa ragion di Stato, alle logiche
particolari e agli appetiti dei suoi dirigenti pro-tempore e della
classe politica al potere.
Ma se la sua natura fondante è proprio quella di perseguire, attraverso
le scelte strategiche operate dai rappresentanti eletti dal popolo,
l'interesse pubblico (soddisfare bisogni generali, garantire
occupazione, assicurare la presenza nazionale in settori strategici
dell'economia) senza gravare per questo la collettività del costo del
profitto e dell'inquinamento morale che esso determina, quelli descritti
sono effetti collaterali che potrebbero essere contenuti o eliminati. E
ciò attraverso un corretto rapporto con la politica, che dovrebbe
limitarsi ad una funzione di controllo e di indirizzo senza
intromissioni nelle scelte gestionali e nella nomina dei dirigenti
operativi, attraverso efficaci controlli di legalità, attraverso la
partecipazione attiva dei cittadini-utenti e dei cittadini-lavoratori ad
una corretta conduzione delle imprese pubbliche.
Sotto questa ottica una gestione pubblica virtuosa non è affatto una utopia e non mancano esempi positivi persino in Italia.
Anche perché sprechi, corruzione e inefficienze si realizzano
soprattutto laddove coesistono, in uno stesso settore, imprese pubbliche
e private, quando il pubblico si serve per l'espletamento delle proprie
funzioni del sistema degli appalti oppure la mala gestione diventa
strategia deliberata per accreditare le qualità del 'privato'.
Le scelte di altri Paesi in tema di privatizzazioni, si guardi la
Francia ad esempio, sono state diverse da quella italiana di quasi
totale smantellamento della struttura produttiva di proprietà dello
Stato.
Ed anche in Italia le poche grandi realtà industriali rimaste sono
quelle a rilevante partecipazione pubblica, l'Enel, l'Eni, la
Finmeccanica, a dimostrazione della natura cannibale e speculatrice del
nostro ceto capitalistico privato che ha acquisito le imprese dello
Stato (e il caso della Telecom è forse quello più eclatante) solo per
lucrare sulla vendita dei ricchi asset che le componevano.
Eppure il ritornello sempre uguale delle oligarchie politiche ed economiche al potere (e dei loro lacché dell'informazione) è che bisogna privatizzare sempre e comunque e si ricomincia oggi con le Poste. Per fare cassa in ossequio alla logica suicida del pareggio di bilancio senza alcuna visione strategica per il futuro, per lasciare ai privati ricche occasioni di business a danno dei lavoratori di quelle aziende, dei cittadini e dei consumatori, facendo finta di ignorare che esistono esigenze sociali pubbliche (ad esempio nei trasporti per i pendolari e per servire zone che altrimenti non sarebbero appetibili per i privati o nella cultura con gli Enti lirici) di cui deve farsi carico la collettività nel suo complesso perché non troverebbero risposte ragionando esclusivamente in termini di profitto.
Eppure il ritornello sempre uguale delle oligarchie politiche ed economiche al potere (e dei loro lacché dell'informazione) è che bisogna privatizzare sempre e comunque e si ricomincia oggi con le Poste. Per fare cassa in ossequio alla logica suicida del pareggio di bilancio senza alcuna visione strategica per il futuro, per lasciare ai privati ricche occasioni di business a danno dei lavoratori di quelle aziende, dei cittadini e dei consumatori, facendo finta di ignorare che esistono esigenze sociali pubbliche (ad esempio nei trasporti per i pendolari e per servire zone che altrimenti non sarebbero appetibili per i privati o nella cultura con gli Enti lirici) di cui deve farsi carico la collettività nel suo complesso perché non troverebbero risposte ragionando esclusivamente in termini di profitto.
C'è oggi una idea che è al centro dei programmi, delle proposte e delle
battaglie della sinistra di alternativa ed è quella della difesa e del
riconoscimento legislativo, in un tentativo di superamento del liberismo
senza ricadere nel capitalismo di Stato, dei "beni comuni",
cioè di quelle risorse (l'acqua, il territorio, la conoscenza per
citarne alcuni) che in quanto destinati a soddisfare bisogni vitali ed
essenziali della collettività devono essere esclusi dalla mercificazione
e dal poter essere oggetto di profitto.
Per essi si rifiuta tanto la privatizzazione quanto la statalizzazione,
prefigurando piuttosto una gestione auto-organizzata e partecipata dal
basso e sul territorio da parte dei cittadini.
Si tratta certamente di una visione stimolante e moderna in cui si
concretizza una democrazia evoluta che fa appello al cittadino
consapevole, informato e pronto ad impegnarsi in prima persona nella
vita comunitaria prevenendo possibili degenerazioni burocratiche
dell'amministrazione dello Stato.
Ma la realizzazione del 'bene comune' nel suo complesso richiede
anche, a mio avviso, qualcosa di più e di diverso (e mi sembra molto
interessante al riguardo quanto scriveva Giorgio Ruffolo in un suo articolo, “Il futuro del lavoro”, in cui viene affermato che “C'è
però un'altra alternativa, più vasta e radicale, che riguarda non il
modo di produzione ma il modo di impiego delle risorse: il rapporto tra
consumi privati e spesa sociale. È solo nell'ambito dei primi che agisce
la concorrenza tra i produttori. In una società che destinasse ai
telefonini la metà della spesa attuale e all'istruzione generale
permanente il doppio (assumendo questi due tipi di beni come
rappresentativi delle due categorie) il ricatto evangelico di Marchionne
sarebbe molto meno efficace. Ciò comporterebbe ovviamente uno
spostamento massiccio della tassazione dall'istruzione ai telefonini.
Vaste programme, avrebbe detto De Gaulle. Ma è proprio un programma così
vasto, di riorientamento delle preferenze, delle scelte, dei valori,
che dovrebbe costituire l'impegno politico, anzi, propriamente, la
ragion d'essere di una sinistra che insegue oggi vanamente la
"concretezza" della sua agenda irrisoria.”).
La realizzazione del bene comune richiede ancora, almeno per i
grandi settori strategici dell'economia e per la società (la ricerca, la
sanità, l'istruzione, i trasporti, la finanza, l'energia,
l'urbanistica, le infrastrutture civili, le produzioni agro-alimentari)
le cui dimensioni e complessità non possono essere lasciate ad una
auto-regolazione collettiva spontanea, la pianificazione, la direzione,
il controllo e l'impegno diretto nella produzione da parte dello Stato.
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