sabato 25 gennaio 2014

Bene comune, logica del profitto e Stato imprenditore

di Maurizio Zaffarano

Ogni qualvolta si sentono contrapporre, nel pensiero unico diffuso dal mainstream informativo, il privato efficiente, efficace, unica fonte di creazione del lavoro e della ricchezza collettiva con il pubblico inefficiente, parassitario, sperperatore delle risorse dei cittadini vengono in mente innumerevoli casi reali che contraddicono questa visione.

Ne cito due, non recentissimi, ma significativi:
la vicenda della clinica degli orrori, la Santa Rita di Milano, che ha visto la condanna nel processo d'appello-bis del primario di chirurgia toracica, Pier Paolo Brega Massone, e dei suoi due vice per avere eseguito secondo la Procura milanese, dal 2005 al 2007, 83 interventi nella migliore delle ipotesi completamente inutili ma causa di indicibili sofferenze ai pazienti, effettuando decorticazioni e sezioni, soprattutto di polmoni e mammelle, unicamente per chiedere il massimo dei rimborsi;
i metodi e i trucchi con cui l'industria farmaceutica ottiene dolosamente l'incremento del consumo di farmaci anche da parte di chi non ne avrebbe bisogno (argomento oggetto di numerose inchieste, tra le altre di Rainews24 e di Repubblica).
Dopo decenni in cui ci hanno spiegato che la gestione pubblica dei servizi e delle attività economiche comportava inevitabilmente sprechi e inefficienze mentre l'iniziativa privata, grazie ai meccanismi della libera concorrenza, avrebbe assicurato per l'utente/consumatore una più ampia possibilità di scelta, riduzione dei costi e migliore qualità dei beni e servizi prodotti la realtà ci mostra esattamente il contrario.
I casi citati colpiscono ancor di più in quanto dimostrano che anche il bene della salute può diventare l'oggetto di delittuose speculazioni a fini di lucro.


Ciò che è successo nella clinica Santa Rita non può peraltro essere ridotto ad un episodio di devianza criminale alla stregua di una rapina in banca o di una estorsione. Esso nasce e si alimenta nel contesto corrotto o comunque distorto di un sistema che smantella la sanità pubblica a vantaggio delle convenzioni con gli istituti privati di cura, si scontra con l'anacronismo di una visione della professione medica, a cui pure credo siamo ancora in molti ingenuamente e romanticamente attaccati, al servizio della persona e non quale mera occasione di arricchimento (si vedano al riguardo le statistiche sullo 'strano' record italiano dei parti cesarei, oggetto di più ricchi rimborsi rispetto ai parti normali).
In una società dove l'unico valore è quello del denaro, anche le persone 'perbene' e con un elevato status sociale quali appunto i medici, anche i 'colletti bianchi' possono considerare accettabile violare la legge, delinquere o addirittura diventare complici, per potersi consentire di vivere nel lusso, dei mercanti di morte.
Con dimensioni quantitativamente assai più rilevanti, la produzione dell'industria farmaceutica è emblematica del conflitto insanabile tra logica del profitto e interesse generale.
L'industria privata deve massimizzare vendite e fatturato e a tal fine indirizza ricerca e produzione dei farmaci laddove maggiore è il margine di guadagno, 'induce' i medici a prescrizioni inutili o eccessive attraverso pratiche corruttive, opera perché cambino i valori di riferimento delle patologie per allargare il numero dei destinatari delle cure, promuove allarmi per incombenti pandemie (si pensi alla bufala del virus dell'H1N1 dell'influenza suina), impone prezzi non accessibili agli abitanti del terzo mondo per farmaci vitali.
L'interesse generale è invece quello della salute di tutti i cittadini, in base ad esso ci si pone, per quanto possibile, l’obiettivo della riduzione della spesa a carico della collettività attraverso la prevenzione, una corretta prescrizione dei farmaci e assegnando ad essi un prezzo accessibile ed equo. L'interesse generale richiede altresì di orientare la ricerca dove massimo può essere il beneficio collettivo senza peraltro omettere di farsi carico, per ragioni di giustizia e di solidarietà, anche di quelle malattie che per la loro rarità non consentirebbero all'industria privata di raggiungere economie di scala.
La constatazione di questa irriducibile contraddizione - pubblico e privato, bene comune e profitto - si estende in realtà all'intera struttura produttiva di un Paese.
Certo va riconosciuto che il profitto, l'egoismo ed il vantaggio personale sono motivazioni che rappresentano anche uno straordinario stimolo ad un progresso che può estendersi alla società nel suo complesso ma inesorabilmente entrano in conflitto con il bene generale della collettività.
Se la legge del capitalismo, se l'imperativo categorico che ci impone questa società, è di guadagnare e consumare quanto più possibile, se il valore delle persone è funzione del loro reddito e delle ricchezze materiali di cui si può godere e che si possono ostentare, è una conseguenza 'naturale' non porre dei limiti etici e non riconoscere delle finalità sociali alla propria iniziativa economica.
Authorities, controlli, pretesi meccanismi di concorrenza perfetta, la favola della dittatura del consumatore possono ben poco di fronte all'interiorizzazione dell'idea che il rispetto delle regole è un lusso, un optional, consiste in lacci e lacciuoli di cui si può e si deve fare a meno oppure quando aziende ed imprese private assumono dimensioni più grandi di interi stati e possono dar vita per di più ad accordi di cartello per sottrarre interi settori dell'economia all'impaccio ed ai costi di una dispendiosa competizione.
Mentre la globalizzazione azzera la capacità di contrattare diritti e retribuzioni da parte dei rappresentanti dei lavoratori, la stessa idea di democrazia entra in crisi di fronte al potere preponderante di alcune entità economiche multinazionali.
Ciò nei paesi ad economia capitalista più evoluta come Stati Uniti e Regno Unito e tanto più in Italia dove la capacità di sanzione morale della collettività dei comportamenti illegali, la cultura dei controlli e le strutture della pubblica amministrazione sono inesistenti o caratterizzate da debolezza e disorganizzazione.
Dovunque volgiamo il nostro sguardo, contiamo le vittime dell'eternit, dei petrolchimici, delle frodi alimentari, dello smaltimento illegale dei rifiuti, degli incidenti sul lavoro (il più delle volte causati dalla volontà di risparmiare, nella fondata certezza dell'impunità, sulla sicurezza).
La logica del profitto è dietro le guerre che sono fatte anche e forse soprattutto a vantaggio dei fabbricanti di armi e delle industrie che vogliono assicurarsi il dominio sulle risorse naturali, il petrolio in primis.
E' all'origine della devastante crisi economica in corso, conseguenza di una aberrante gestione speculativa del sistema finanziario da parte di alcune banche private.
La Fiat ha imposto per un cinquantennio al nostro Paese una politica della mobilità incentrata sul trasporto privato su gomma di merci e passeggeri a detrimento di quello pubblico su rotaia o nave, politica di cui sono state espressione ben determinate scelte infrastrutturali, a spese della fiscalità generale, che hanno privilegiato lo sviluppo delle autostrade rispetto a quello delle ferrovie e delle metropolitane. Un trasporto automobilistico privato che ha determinato inquinamento e migliaia di morti ogni anno in incidenti stradali. Ma una volta che si creano le condizioni per più vantaggiosi impieghi e localizzazioni del proprio capitale, la Fiat pianifica e realizza lo smantellamento delle attività produttive in Italia per trasferirle altrove, senza che i suoi proprietari e manager avvertano un debito morale verso i lavoratori e le loro famiglie, verso i territori la cui economia è legata ai suoi stabilimenti, respingendo qualunque cedimento all'idea di essere patrimonio ed espressione dell'interesse nazionale.
Se a tutto questo paragoniamo la gestione da parte dello Stato o di altri enti pubblici di attività economiche e servizi, va riconosciuto che quest'ultima non si concretizza di per sé nel Paradiso in terra. E' stata in passato (basta pensare al sistema democristiano delle Partecipazioni Statali) ed è spesso tuttora il regno della corruzione e dell'inefficienza, il poltronificio dove piazzare parenti, amici, colleghi di partito trombati alle elezioni, lo strumento clientelare di acquisizione del consenso elettorale. Anche il pubblico può operare ed ha operato in spregio dei diritti e della salute dei cittadini, magari per rispondere ad una malintesa ragion di Stato, alle logiche particolari e agli appetiti dei suoi dirigenti pro-tempore e della classe politica al potere.
Ma se la sua natura fondante è proprio quella di perseguire, attraverso le scelte strategiche operate dai rappresentanti eletti dal popolo, l'interesse pubblico (soddisfare bisogni generali, garantire occupazione, assicurare la presenza nazionale in settori strategici dell'economia) senza gravare per questo la collettività del costo del profitto e dell'inquinamento morale che esso determina, quelli descritti sono effetti collaterali che potrebbero essere contenuti o eliminati. E ciò attraverso un corretto rapporto con la politica, che dovrebbe limitarsi ad una funzione di controllo e di indirizzo senza intromissioni nelle scelte gestionali e nella nomina dei dirigenti operativi, attraverso efficaci controlli di legalità, attraverso la partecipazione attiva dei cittadini-utenti e dei cittadini-lavoratori ad una corretta conduzione delle imprese pubbliche.
Sotto questa ottica una gestione pubblica virtuosa non è affatto una utopia e non mancano esempi positivi persino in Italia.
Anche perché sprechi, corruzione e inefficienze si realizzano soprattutto laddove coesistono, in uno stesso settore, imprese pubbliche e private, quando il pubblico si serve per l'espletamento delle proprie funzioni del sistema degli appalti oppure la mala gestione diventa strategia deliberata per accreditare le qualità del 'privato'.
Le scelte di altri Paesi in tema di privatizzazioni, si guardi la Francia ad esempio, sono state diverse da quella italiana di quasi totale smantellamento della struttura produttiva di proprietà dello Stato.
Ed anche in Italia le poche grandi realtà industriali rimaste sono quelle a rilevante partecipazione pubblica, l'Enel, l'Eni, la Finmeccanica, a dimostrazione della natura cannibale e speculatrice del nostro ceto capitalistico privato che ha acquisito le imprese dello Stato (e il caso della Telecom è forse quello più eclatante) solo per lucrare sulla vendita dei ricchi asset che le componevano.
Eppure il ritornello sempre uguale delle oligarchie politiche ed economiche al potere (e dei loro lacché dell'informazione) è che bisogna privatizzare sempre e comunque e si ricomincia oggi con le Poste. Per fare cassa in ossequio alla logica suicida del pareggio di bilancio senza alcuna visione strategica per il futuro, per lasciare ai privati ricche occasioni di business a danno dei lavoratori di quelle aziende, dei cittadini e dei consumatori, facendo finta di ignorare che esistono esigenze sociali pubbliche (ad esempio nei trasporti per i pendolari e per servire zone che altrimenti non sarebbero appetibili per i privati o nella cultura con gli Enti lirici) di cui deve farsi carico la collettività nel suo complesso perché non troverebbero risposte ragionando esclusivamente in termini di profitto.

C'è oggi una idea che è al centro dei programmi, delle proposte e delle battaglie della sinistra di alternativa ed è quella della difesa e del riconoscimento legislativo, in un tentativo di superamento del liberismo senza ricadere nel capitalismo di Stato, dei "beni comuni", cioè di quelle risorse (l'acqua, il territorio, la conoscenza per citarne alcuni) che in quanto destinati a soddisfare bisogni vitali ed essenziali della collettività devono essere esclusi dalla mercificazione e dal poter essere oggetto di profitto.
Per essi si rifiuta tanto la privatizzazione quanto la statalizzazione, prefigurando piuttosto una gestione auto-organizzata e partecipata dal basso e sul territorio da parte dei cittadini.
Si tratta certamente di una visione stimolante e moderna in cui si concretizza una democrazia evoluta che fa appello al cittadino consapevole, informato e pronto ad impegnarsi in prima persona nella vita comunitaria prevenendo possibili degenerazioni burocratiche dell'amministrazione dello Stato.
Ma la realizzazione del 'bene comune' nel suo complesso richiede anche, a mio avviso, qualcosa di più e di diverso (e mi sembra molto interessante al riguardo quanto scriveva Giorgio Ruffolo in un suo articolo, “Il futuro del lavoro”, in cui viene affermato che “C'è però un'altra alternativa, più vasta e radicale, che riguarda non il modo di produzione ma il modo di impiego delle risorse: il rapporto tra consumi privati e spesa sociale. È solo nell'ambito dei primi che agisce la concorrenza tra i produttori. In una società che destinasse ai telefonini la metà della spesa attuale e all'istruzione generale permanente il doppio (assumendo questi due tipi di beni come rappresentativi delle due categorie) il ricatto evangelico di Marchionne sarebbe molto meno efficace. Ciò comporterebbe ovviamente uno spostamento massiccio della tassazione dall'istruzione ai telefonini. Vaste programme, avrebbe detto De Gaulle. Ma è proprio un programma così vasto, di riorientamento delle preferenze, delle scelte, dei valori, che dovrebbe costituire l'impegno politico, anzi, propriamente, la ragion d'essere di una sinistra che insegue oggi vanamente la "concretezza" della sua agenda irrisoria.”). 
La realizzazione del bene comune richiede ancora, almeno per i grandi settori strategici dell'economia e per la società (la ricerca, la sanità, l'istruzione, i trasporti, la finanza, l'energia, l'urbanistica, le infrastrutture civili, le produzioni agro-alimentari) le cui dimensioni e complessità non possono essere lasciate ad una auto-regolazione collettiva spontanea, la pianificazione, la direzione, il controllo e l'impegno diretto nella produzione da parte dello Stato.

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