domenica 9 febbraio 2014

Bifo Berardi: Con Tsipras contro l’assolutismo finanziario

fonte: Micromega

di Franco "Bifo" Berardi


Alexis Tsipras rappresenta la resistenza della società greca contro l’aggressione finanziaria, e questa è per me una motivazione sufficiente per dichiarare il mio appoggio alla lista che si presenta a suo nome alle elezioni europee, e per andarlo a votare.
Ma quale scopo si prefigge questa lista? Se alle elezioni otterremo soltanto un pronunciamento della minoranza senile e tardo-gauchista (di cui faccio parte) a favore dell’unico giovane politico europeo che non sia moralmente corrotto e intellettualmente conformista, non sarà un grande risultato.
Perciò assumendo l’impegno a costruire le condizioni culturali e politiche per un’affermazione di questa lista, dobbiamo ragionare sugli scenari che una campagna per Tsipras può aprire, agli effetti di ricomposizione culturale e sociale che si possono ottenere.

Non ho alcuna fiducia nella democrazia rappresentativa. E’ ormai senso comune lo svuotamento delle istituzioni democratiche di fronte agli automatismi del capitale finanziario. D’altra parte l’Unione europea è costitutivamente un’autocrazia finanziaria, dal momento che le decisioni della Banca centrale europea sono sottratte alle deliberazioni del Parlamento. Dunque perché mobilitarsi, perché votare?
La società europea è depressa, disgregata, rabbiosamente aggressiva. La campagna per Tsipras deve comunicare la possibilità di un processo unitario di solidarietà e di rivolta, di insolvenza e di indipendenza della vita quotidiana dalla dittatura finanziaria.
Oppure non servirà a niente.

Il processo di disgregazione dell’Unione europea è ormai troppo avanzato per poterlo fermare. Gli egoismi identitari eccitati dalla violenza finanziaria sono destinati a produrre i loro effetti devastanti. Non illudiamoci. 
La lista Tsipras può essere l’inizio di un processo di ricostituzione dell’Unione oltre la presente catastrofe, può riattivare un processo di solidarietà sociale e creare le condizioni per una ricomposizione culturale che vada oltre la crisi attuale, per una ridefinizione strategica dell’unione europea. 
Il problema non è l’euro

Sempre più frequentemente, in Italia come altrove, si levano voci a favore dell’uscita dall’euro. E’ un’illusione pericolosa, anche se nasce da motivazioni ben comprensibili: l’unione monetaria europea ha sospeso la democrazia per imporre misure che la maggioranza respinge, e impoverito la vita di milioni di persone. Da quando esiste l’euro il salario è dimezzato, la spesa pubblica ridotta in maniera drastica, la disoccupazione cresciuta a livelli mai visti prima, mentre l’orario di lavoro non ha più limiti. D’altra parte questo non è che l’inizio, poiché gli effetti del fiscal compact e l’implacabile determinazione austeritaria sono destinati a spingere nella miseria una parte crescente della popolazione, con gli effetti politici che già si vedono: disfacimento della democrazia, disgregazione della solidarietà sociale, crescita dell’aggressività identitaria, nazionalista, razzista.

Solo una visione assai miope può indurci a pensare che la causa della catastrofe sia l’unione monetaria europea, per cui sarebbe risolutiva l’uscita dall’euro, con il ritorno alle monete nazionali. La nascita dell’euro e la deriva finanziarista dell’Unione europea non sono spiegabili se non nel contesto della mutazione del capitalismo globale. Perciò occorre risalire a scelte che furono compiute un po’ prima dell’avvento dell’euro, e su un piano che non è soltanto monetario. Dobbiamo risalire alla condizione radicalmente nuova che si aprì alla fine degli anni ’70 per effetto di due fattori convergenti: la lunga ondata di lotta operaia che aveva provocato una distribuzione del reddito a favore dei lavoratori, e l’immensa rivoluzione tecnologica prodotta dalle tecnologie digitali.
Occorre risalire a quella congiunzione, occorre ripensare l’alternativa che in quel momento si aprì, e occorre ricostruire i passaggi successivi che hanno reso possibile la controffensiva capitalistica di cui oggi vediamo gli effetti.

L’appuntamento perduto

Negli anni Settanta si conclude il secolo operaio e si apre la prospettiva dell’informatizzazione di ogni attività di manipolazione fisica e semiotica della realtà: la trasformazione tecnica che ha investito il processo di produzione non è priva di rapporto con la forza politica operaia. Fu il rifiuto operaio dello sfruttamento che costrinse il capitale ad accelerare i processi di automazione del lavoro, e fu la scolarizzazione di massa e i movimenti libertari degli studenti che resero possibile l’esplosione della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica.

Ma la trasformazione tecnica aprì un’alternativa che non aveva solo carattere politico e sindacale, ma disegnava due prospettive per l’evoluzione della stirpe umana: la prima era quella dell’applicazione condivisa della potenza tecnica e di una riduzione massiccia, costante, strategica del tempo di lavoro. La seconda era quella di una gestione capitalistica unilaterale dell’innovazione tecnica e di un attacco globale alle condizioni del lavoro, con riduzione dell’occupazione, delocalizzazione e riduzione generalizzata del salario e della quota di ricchezza destinata al bene sociale.

Dal momento che grazie all’innovazione tecnologica il tempo di lavoro necessario diminuiva (e non smette di diminuire) si crearono le condizioni per liberare tempo dal lavoro, così da destinarlo all’autocura, all’educazione, al perseguimento della felicità. Oppure si poteva usare la tecnologia per cacciare masse crescenti nella disoccupazione e ricattare i lavoratori riducendo il salario complessivo.

Sappiamo quale strada è stata scelta o meglio imposta alla società. Il movimento operaio, culturalmente subalterno all’ideologia lavorista e incapace di comprendere l’effetto potenzialmente liberatorio delle nuove tecnologie, vide in queste soltanto un pericolo, salvo ipocritamente esaltarle senza capirle, e scelse la difesa del posto di lavoro e della composizione esistente del lavoro. Da quel momento il movimento operaio divenne forza di conservazione incapace di resistere alla trasformazione tecnica di cui il capitale divenne il solo beneficiario.

Aggressività del capitale e subalternità delle sinistre resero possibile una generale deregulation che significava al contempo accoglimento della potenza trasformativa delle tecnologie ed eliminazione delle difese legali e sindacali che proteggevano la società.
La tecnologia è stato il fattore decisivo della trasformazione sociale planetaria negli ultimi decenni, non la politica. Ma la politica, che avrebbe potuto scegliere di assecondare la tecnologia favorendo una redistribuzione sociale dei suoi effetti, rinunciò a rivendicare una riduzione e redistribuzione del tempo di lavoro necessario e della ricchezza. Rinunciò così all’unica misura che avrebbe reso possibile una condivisione dell’arricchimento derivante dalla potenza dell’intelligenza tecnico-scientifica. 

L’assolutismo finanziario

A partire dagli anni Ottanta si sono così create le condizioni dell’attuale assolutismo del capitale: smantellamento delle regolazioni di protezione dei lavoratori e del territorio, privatizzazione dei servizi sociali, globalizzazione del mercato del lavoro e precarizzazione. 
Quando il processo di globalizzazione integrò enormi settori di nuova forza lavoro nel ciclo di produzione industriale mentre crollava il socialismo totalitario, i lavoratori delle economie emergenti potevano vedere nel modello europeo un esempio di redistribuzione della ricchezza e di contenimento dello sfruttamento.

La sinistra europea a quel punto si trovò di fronte ad un’alternativa: assumere il ruolo di esempio per i lavoratori dei paesi di nuova industrializzazione, facendo della riduzione del tempo di lavoro il tema unificante su scala mondiale, oppure integrarsi al modello neoliberista e mettersi al servizio delle politiche monetariste di finanziarizzazione. La sinistra europea subì il mantra della competitività in modo subalterno e si destinò così a una disintegrazione irreversibile.

Dopo gli accordi di Maastricht e poi con la creazione dell’euro il ceto finanziario globale ha portato a termine la distruzione del modello europeo e ha posto le condizioni per la deflagrazione del progetto politico dell’unione. Il capitalismo finanziario globale ha usato l’architettura monetaria dell’euro per sottomettere le dinamiche sociali e la crisi seguita al 2008 ha accelerato questa sottomissione facendo del debito la leva per l’attacco. Ma la logica monetaria sottende un processo più profondo: la deterritorializzazione del capitale resa possibile dalle tecnologie di rete ha modificato la natura del capitalismo. La borghesia industriale del passato aveva interessi fortemente territorializzati: i profitti dipendevano dalla crescita sociale complessiva. Il capitalista aveva bisogno di una comunità di consumatori e l’arricchimento della classe proprietaria non poteva prescindere dal benessere della società. Il progresso dell’economia di profitto era parallelo al progresso della società complessiva. Questo non è più vero.

La macchina del capitalismo finanziario deterritorializzato non risponde più alla vecchia logica progressiva del capitalismo industriale perché l’incremento dei profitti finanziari non dipende dall’arricchimento complessivo della società, ma dalla sistematica predazione delle risorse sociali: privatizzazione della sfera pubblica, appropriazione finanziaria delle risorse comuni. Il sistema bancario produce debito, lo trasferisce alla società e la macchina politica si incarica di trasferire ricchezza dalla società verso il sistema bancario, surrettiziamente trasformato in beneficiario della predazione.

Se l’accumulazione industriale dipendeva dall’estrazione di plusvalore dal lavoro operaio, l’accumulazione finanziaria contemporanea sembra piuttosto dipendere da un minus-valore, dalla predazione sistematica di ciò che la società produce, senza alcun incremento del bene pubblico. 
L’arricchimento della classe finanziaria (che procede imperterrito perfino negli anni più neri di recessione e di crisi) non può avvenire che al prezzo di un impoverimento della società.

Il superamento della crisi del 1929 o della stagflazione degli anni ’70 comportava una riattivazione della crescita e una distribuzione (per quanto diseguale e iniqua) del valore prodotto. I lavoratori partecipavano alla ripresa economica: l’occupazione aumentava, i salari crescevano, la quota di reddito destinata al lavoro rimaneva stabile, o addirittura cresceva come accadde negli anni ’60.
Ora non è più così. La formula jobless recovery è un ipocrita mascheramento della realtà: la fuoriuscita dalla recessione e l’incremento della produttività non comportano assolutamente un aumento dell’occupazione, e meno che meno un progresso salariale. Al contrario, la ripresa si fonda proprio su aumento del tempo di lavoro e riduzione dell’occupazione. Più disoccupati, più miseria, più sfruttamento, quindi più profitti.

La dissociazione tra il destino della macchina finanziaria e il destino della società è totale, perché il solo modo di arricchirsi della macchina finanziaria consiste nell’impoverire la società.
L’euro è stato lo strumento per l’imposizione di questo modello predatorio. Il problema dunque non è uscire dall’euro, ma uscire dal modello predatorio del capitalismo finanziario. Uscire dall’euro significherebbe accelerare la fine del progetto politico europeo senza mettere in questione le vere cause dell’impoverimento della società.

Ma chi ha la forza per fermare o rovesciare la dinamica predatoria finazista? Un movimento solidale dei lavoratori europei potrebbe farlo, ma la precarizzazione sta distruggendo ogni tessuto di solidarietà, e sul piano politico si sgretola il consenso di cui godeva l’Unione europea fino a pochi anni fa. Lo sgretolamento politico d’Europa è all’orizzonte, come indica la crescita di forze nazionaliste in molti paesi del continente. Se FN diventa partito di maggioranza alle prossime elezioni francesi l’Unione europea non esiste più. 

A partire da Tsipras

In questo contesto nasce la proposta della lista Tsipras. Questa lista può creare le condizioni per la ricostruzione di lungo periodo della solidarietà sociale, e per riaprire il discorso sul carattere progressivo della tecnologia, sull’alleanza tra lavoro cognitivo e società, sul reddito di cittadinanza e sulla riduzione del tempo di lavoro sociale.
Un’affermazione strepitosa della lista Tsipras alle elezioni di maggio è la condizione per rimettere in moto l’intelligenza collettiva, per ricollegare intelligenza e solidarietà, per diradare la nebbia depressiva in cui sembra vagare la mente collettiva.

(8 febbraio 2014)

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