Lo sanno anche i muri e lo capiscono anche gli asini che la prevenzione delle catastrofi in un Paese ad elevato rischio idrogeologico e sismico è una priorità assoluta ed un'emergenza ineludibile (e coloro che fanno finta di non saperlo e non capirlo sono dei disonesti, probabilmente non solo intellettualmente).
Avere a cuore il Paese e l'incolumità dei cittadini significa mettere in sicurezza il territorio e gli edifici pubblici e privati a partire da scuole ed ospedali, significa porre fine alla cementificazione e ai disboscamenti, significa risanare quelle aree come la Terra dei Fuochi o Taranto dove, per il guadagno di pochissimi, centinaia di migliaia di persone sono state condannate all'esposizione a terribili malattie, significa spingere per lo sviluppo delle rinnovabili e l'efficienza energetica anziché dare il via libera alle letali trivellazioni sotto costa che comprometteranno uno degli ultimi asset economici nazionali: il turismo.
Una grandissima opera pubblica, come scrive Salvatore Settis, fatta di tantissime piccole opere pubbliche che servono alla vita delle persone e non ad ingrassare lobbies e a consentire al politico di turno di fare passerella nella posa della prima pietra.
Una grandissima opera pubblica in grado di dare davvero lavoro a centinaia di migliaia di persone e non solo negli annunci di politicanti da strapazzo.
Non si dica che non ci sarebbero le risorse finanziarie necessarie: è solo una questione di volontà politica nelle scelte di spesa e nelle modalità di finanziamento degli impegni pubblici (basterebbe rileggere almeno il liberaldemocratico Keynes). E se uno Stato non è in grado di dare priorità alla salvezza dei propri cittadini non può essere uno Stato degno di questo nome. Tenuto conto poi che prevenire le catastrofi, ridurre incidenti e malattie, ottenere l'efficienza energetica degli edifici pubblici significa conseguire nel tempo elevati risparmi di spesa (a favore delle persone e non contro le persone come avviene quando si taglia su sanità, scuola e pensioni). Unendo poi a tutto questo la preservazione del paesaggio e delle bellezze naturali, la cura e la conservazione dei beni artistici e archeologici anche per renderli maggiormente fruibili, il ripristino della manutenzione ordinaria di strade e infrastrutture pubbliche si darebbe uno straordinario impulso all'economia turistica e culturale oltre a restituire dignità e decoro a questo Paese.
Ma si può pensare che un vasto programma di questo tipo, una volta assunte le decisioni politiche e stanziate le risorse necessarie, potrebbe realizzarsi dentro l'attuale sistema degli appalti e non venire massacrato, boicottato, bloccato da infiltrazioni mafiose, lobbies, pratiche clientelari e corruttive, inefficienze e pastoie burocratiche? Un programma di questo tipo, e qui vengo alla cosa di sinistra, necessita invece quale condizione indispensabile di essere attuato da un'Azienda pubblica da creare ad hoc, attivabile senza ritardi e torbide manovre da amministrazioni e comunità locali e che tragga le sue competenze tecniche dalla Protezione Civile, Forze Armate, Vigili del Fuoco, Sovraintendenze dello Stato ed Autorità di Bacino, Anas e via discorrendo.
da Repubblica del 16 novembre 2014 tramite Eddyburg.it
Il Paese degli alibi di Salvatore Settis
«L'unica, la vera “grande opera” di cui il Paese ha urgentissimo bisogno (e che genererebbe moltissimi posti di lavoro) è la messa in sicurezza del territorio. Per imboccare questa strada manca, a quel che pare, l’ingrediente essenziale: un’idea di Italia, un’idea declinata al futuro». La Repubblica, 16 novembre 2014
Milano invasa da Seveso e Lambro, Genova e la Liguria che spiano col fiato sospeso i loro torrenti, Alessandria allagata. Il disastro annunciato che colpisce l’Italia a ogni botta di maltempo innesca ogni volta gli stessi effetti: i primi giorni pianti e lacrime, imprecazioni, ipotesi di mega- piani risolutori. Subito dopo, le chiacchiere si dissolvono nel nulla e si torna alla consueta strategia dell’oblio. Eppure quel che è in ballo è la vita dei cittadini, la salute del territorio, la salvaguardia delle generazioni future. Viceversa, ci industriamo a sbandierare alibi: cambiamenti climatici, bombe d’acqua, il fato, la sfortuna. Ma non ci sono scuse: non è vero né che questi disastri siano imprevedibili, né che siano recente novità, dato che già negli anni 1985-2011 si sono verificati in Italia 15.000 eventi di dissesto, di cui 120 gravi, con 970 morti (rapporto Ance-Cresme).
È vero invece che i governi d’ogni segno chiudono gli occhi per non vedere che l’Italia è il Paese più fragile d’Europa, col 10% del territorio a elevato rischio idrogeologico, il 44% a elevato rischio sismico, mezzo milione di frane in movimento. Un solo rimedio è possibile: mettere in sicurezza il territorio, programmare e avviare grandi opere di manutenzione e salvaguardia. Fare, per quel corpo di tutti che è l’Italia, quello che ognuno fa per il proprio corpo: non aspettiamo una malattia grave per andare dal medico, corriamo ai ripari da prima, sappiamo che prevenire è meglio che curare. Non si eviteranno tutti i danni, ma se ne ridurrà enormemente il numero, la frequenza e la portata.
Quali sono i costi di questa mancata manutenzione? Secondo il rapporto Ance-Cresme, non meno di 3,5 miliardi di euro l’anno, senza contare morti e feriti. E quanto ci vorrebbe per mettere in sicurezza l’intero territorio italiano? Qualcosa come 1,2 miliardi l’anno, per vent’anni. Dunque l’opera di prevenzione, nei tempi lunghi, non è solo un investimento, è un risparmio. Ma proprio questo è il problema: i nostri governi rifuggono dai tempi lunghi, sono anzi afflitti da cronica miopia. Non sanno guardare lontano, non praticano la nobile lungimiranza predicata da Piero Calamandrei («la Costituzione dev’essere presbite »). Sono afflitti da strabismo, anche: davanti ai peggiori disastri, ne distolgono lo sguardo e sognano “grandi opere” (cioè grandi appalti), proclamando che da lì, e da lì solo, verrà l’agognato benessere.
E la storia si ripete: nel 2009, dopo la frana di Giampilieri (Messina) che seppellì 39 cittadini, il sottosegretario Bertolaso sostenne che era impossibile finanziare la messa in sicurezza dell’area, e due giorni dopo il ministro Prestigiacomo proclamò che bisognava affrettarsi a fare (su quelle frane) il Ponte sullo Stretto. Con identica sequenza, a far da contrappunto ai lutti in Liguria è venuta la dichiarazione del ministro Lupi alla Camera (10 novembre): «Io sono sempre favorevole alla realizzazione del Ponte e credo sia un tema che qualunque governo dovrebbe porsi».
Anziché leggere i segni premonitori dei prossimi disastri nel paesaggio deturpato, nell’assenza di piani paesaggistici regionali (invano prescritti dal Codice dei Beni culturali e del paesaggio), nella mancanza di una carta geologica aggiornata (per il 60% del territorio dobbiamo accontentarci di quella del 1862!), ci stracciamo le vesti a ogni disastro, come se i colpevoli non fossimo proprio noi. Questa incuria, che coinvolge anche un’opinione pubblica incline a distrarsi, è ormai “strutturale”, un dato fisso dell’orizzonte politico italiano. A chi giova? A chi pratica una selvaggia deregulation, che nega ogni pianificazione di lungo periodo e in nome della libertà delle imprese e di uno “sviluppo” identificato con la speculazione edilizia calpesta i diritti dei cittadini e la tutela del territorio.
Nessun governo ha finora avuto il coraggio di fare una spregiudicata analisi degli errori, prerequisito indispensabile di ogni capacità progettuale. Anzi, nel recente Sblocca-Italia si prevede per la manutenzione del territorio un contentino di 110 milioni, a fronte di quasi 4 miliardi di spese in nuove “grandi opere” che accresceranno la fragilità del territorio. Dopo la Bre-Be-Mi, autostrada fallimentare e semivuota, avremo dunque la Orte-Mestre, con un beneficio fiscale di quasi due miliardi per le imprese costruttrici. Verrà perfino ripresa la costruzione della Valdastico, già nota come Pi-Ru-Bi (Piccoli- Rumor-Bisaglia), e lasciata poi cadere perché superflua. Ma l’unica, la vera “grande opera” di cui il Paese ha urgentissimo bisogno (e che genererebbe moltissimi posti di lavoro) è la messa in sicurezza del territorio. Per imboccare questa strada manca a quel che pare l’ingrediente essenziale: un’idea di Italia, un’idea declinata al futuro.
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